La tristezza, pensiero cattivo.

tristezza
La tristezza ha un senso e una funzione: il bambino che avverte una separazione dalla madre piange, perché lei si riavvicini. Si tratta sempre, dunque, di una perdita, che può essere di vario genere e natura. Questi stati sono da attribuire, più che a una causa di tipo psicologico, a motivi di natura spirituale, più difficilmente individuabili e riconoscibili.
Anche Car Gustav Jung sosteneva che la persona si trova, intorno ai quarant’anni, a fare i conti con l’infinito: da adolescenti affrontiamo le grandi domande esistenziali, che poi mettiamo da parte per costruire un lavoro, una famiglia. Le domande ritornano, più tardi, provocandoci sul futuro e sul tema più scottante, quello della morte.
Ecco perché sorgono l’esigenza e la necessità di ritrovare se stessi, in un momento di silenzio, per capire quali siano le perdite che ora ci affliggono, per aprirci a orizzonti inediti e alla dimensione sconosciuta dello spirito. Se invece ci chiudiamo, rifiutando la sfida, tarpiamo lo spirito e ci priviamo di scenari più consoni alla nostra vocazione.
Per questo i Padri identificavano nella tristezza l’ottavo pensiero cattivo, un ostacolo grave alla crescita spirituale e umana, l’imporsi dell'”uomo vecchio”, che impedisce la cosiddetta “divinizzazione“, condizione indispensabile della felicità.
Si tratta di un cammino che non si può fare da soli: è necessario lasciarsi guidare dalla Chiesa e soprattutto fidarsi, farci prendere e portare per mano in direzioni che non potremmo mai conoscere senza l’aiuto del Signore.